Il Pacific trash vortex: la gigantesca isola di plastica nel Pacifico

La Pacific Trash Vortex è un’immensa isola di plastica vagante nell’Oceano Pacifico: l’accumulo è noto dalla fine degli anni ’80. Stiamo parlando di 79mila tonnellate di plastica che ricoprono un’area di circa 1,6 milioni di chilometri quadrati (il doppio della Francia).

L’azione della luce solare crea sottili filamenti caratteristici delle catene di polimeri. Questi residui non sono metabolizzabili dagli organismi ed entrano inevitabilmente nella loro catena alimentare: la conseguenza è che poi il ciclo prosegue arrivando sulle nostre tavole grazia alla pesca. Possiamo dire che questa ‘plastica’, dopo essere stata gettata dall’uomo, ritorna per essere mangiata. Senza contare l’immenso danno ambientale agli oceani ed alla vita di tutte le creature acquatiche.

Da dove proviene la plastica dell’isola di plastica?

Si stima che tutta la plastica che compone quest’isola provenga dall’incessante inquinamento provocato dall’essere umano già a partire dagli anni ’80, ma anche dalle occasionali perdite dei container delle navi cargo, a causa di improvvise tempeste in mare, il cui contenuto va ad alimentare il deposito di plastica galleggiante.

Pacific Trash Vortex

Ma ciò che più ne contribuisce alla formazione è la particolare corrente oceanica che agisce in quella zona del pacifico. Tale corrente è denominata Vortice subtropicale del Nord Pacifico, ed il suo movimento a spirale in senso orario fa si che la plastica si aggreghi e che rimanga intrappolata nel centro del vortice. Diventa, così, una regione relativamente stazionaria che permette ai rifiuti di galleggiare in superficie.

In sostanza, si tratta di una gigantesca isola formatasi grazie ad un vortice di correnti superficiali che ha concentrato rifiuti principalmente plastici gettati da navi o scaricati in mare dalle coste del Nord America e dall’Asia. La plastica non è biodegradabile e permane per tempi lunghissimi nell’ambiente provocando un danno inimmaginabile.

Un’analisi dei detriti dell’isola di plastica

Una ricerca pubblicata su Scientific Reports e coordinata dall’organizzazione no-profit The Ocean Cleanup, ha analizzato 573 chili di detriti raccolti tra il giugno e il novembre 2019 nell’enorme isola di plastica.

I rifiuti sono stati catalogati, contati, pesati e analizzati per cercare di capire l’origine e l’età. I risultati, uniti con delle simulazioni numeriche e i dati di altre missioni oceanografiche, hanno mostrato come la maggior parte del materiale deriva dalla pesca.

In particolare, il 26% dei frammenti è costituito da attrezzatura da pesca (trappole, confezioni per il pesce). Salvagenti e boe rappresentano invece solo il 3 per cento degli oggetti presenti, ma costituiscono il 21% della massa totale.

In generale, secondo i ricercatori la probabilità che un rifiuto derivi da attività di pesca è dieci volte superiore a quella che arrivi da attività fatte in terraferma. Per 232 detriti è stato possibile risalire al paese d’origine: il 34% arrivava dal Giappone, il 32% dalla Cina, il 10% dalla Corea del Sud, il 6% dagli Stati Uniti.

Alex Bellini la definisce una gigantesca zuppa di plastica

Per quanto riguarda la sensibilizzazione nei confronti di questa situazione critica, spicca la figura tutta italiana di Alex Bellini. A Febbraio del 2019 è partito per un viaggio che lo ha portato a percorrere con la sua zattera i 10 fiumi più inquinati del mondo. Questi ultimi sembrano contribuire alla formazione dell’isola di plastica, fino a concludersi quest’anno, al Great Pacific Garbage Patch. L’obiettivo di sensibilizzare ancor di più l’opinione pubblica e, soprattutto, i governi mondiali riguardo tale problematica.

Quella è una zona morta, non ho incontrato praticamente alcuna forma di vita animale, mentre ero esposto senza filtri alla violenza dell’azione dell’uomo sull’ambiente”, spiega Bellini a LifeGate, che chiarisce che il Gpgp non è un’isola di plastica ma piuttosto una zuppa, composta per la maggior parte da miliardi di piccoli frammenti grandi come un’unghia, in cui si incontrano sporadicamente grosse reti, cassette e boe. “Mentre stavo in quel luogo desolante, osservando quello che raccoglievo con il retino, come se fosse materia aliena, avevo la sensazione che in realtà un’altra volta qualcuno di quei pezzettini fosse già passato tra le mie mani”, riflette. “E mi chiedevo: ma ho fatto davvero tutto il possibile per evitare che arrivasse fin qui? O preso dalla convinzione che qualcuno si sarebbe occupato di questo rifiuto ho contribuito a fargli compiere il viaggio che l’ha portato fin qua?”.

Altre isole di plastica nel mondo

La South Pacific Garbage Patch al largo del Perù ed è grande 8 volte l’Italia(2,6 milioni di km2) .

La Sargassi Garbage Patch, è l’ultima isola di plastica ad essere stata scoperta ed una delle più recenti per formazione.

L’Artic Garbage Patch si trova nel Mar di Berents nei Circo Polare Artico e la sua creazione è principalmente causa di noi europei.

Si sono pensati diversi sistemi per ridurre queste isole e smaltirne i rifiuti, come ad esempio la famosa macchina di CleanUp. Tuttavia sarà tutto inutile se non impareremo a ripensare alle nostre abitudini incentrare sul consumo. Ognuno nel proprio piccolo può essere fonte di cambiamento.

Non è più possibile far finta di nulla, non è più una scelta ma un imperativo morale, soprattutto per i governi di tutto il mondo, altrimenti continueremo ad inquinare mari ed oceani a questo ritmo e nel 2050 nel mare ci sarà più plastica che pesci.

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